lunedì 18 maggio 2020

Se solo alzassimo gli occhi per un istante

(...)
Questo non è un atto d'accusa, naturalmente. Piuttosto, fino a questo momento è stato un test su come lavorano i muri che chiudono la nostra mente e quei binari invisibili che ci guidano sempre verso una direzione data, anche quando ai lati apparirebbero interi panorami se solo alzassimo gli occhi per un istante. È un modo di riflettere sulla bellezza e la sottigliezza che ci sfuggono tutti i giorni, semplicemente perché non pensiamo che debbano essere qui: non ora, per favore, non in questo luogo della mia vita. Convinti di essere nel pieno delle nostre facoltà,  obbedisco al contesto anziché ai nostri sensi e al nostro cervello. Confondiamo il valore con il prezzo, prendiamo il secondo come misura esclusiva del primo. Alcuni studi mostrano che, alla cieca, spesso tendiamo ad apprezzare vini meno cari ma improvvisamente preferiamo i più costosi non appena qualcuno ci informa del loro prezzo. L'aver speso per un prodotto acuisce la nostra mente, ne affina la percezione.
(...)
William, se ricordate, lo abbiamo già rapidamente incontrato: fa parte del club dei nove che si sono sacrificati a venire con me fino a Mondragone per raccontare la propria vita contro le probabilità ai ragazzi dell'istituto tecnico di una delle città  d'Italia più martoriate dall'incuria dei suoi stessi abitanti.
A loro William ha raccontato che, gran parte dei suoi compagni di scuola dell'infanzia, i suoi coetanei e vicini di casa, oggi non sono più in vita per poter raccontare cos'era Medellín allora. Lui stesso si considera un miracolato. Salvato dalla droga e dalle bande di strada solo grazie alla musica. È rimasto vivo perché, con la sua fissazione di cantare nel tempo libero, suo padre involontariamente gli ha permesso di ereditare fin dalla primissima infanzia un patrimonio intangibile di sensibilità e percezioni; su di esso William ha potuto costruire passione, conoscenza e alla fine una competenza che tutto il mondo oggi è disposto a riconoscere e remunerare.
La svolta per lui  è arrivata all'età di 11 anni, quando per caso un giorno gli capitò di accompagnare sua cugina a iscriversi a un conservatorio locale; da quel momento non ne sarebbe mai uscito, in un certo senso. Eppure questa serie di eventi innescata dal talento, dalle esperienze della prima infanzia e della pura e semplice casualità, non avrebbe mai portato Chiquito a Roma oggi se il filo che lo collega all'Italia non avesse iniziato a dipanarsi molto prima della sua nascita.
All'inizio degli anni cinquanta Fernando Botero era già stato qui. Tutti conosco Botero, il pittore e scultore delle figure femminili surrealisticamente corpulento. Anche Botero viene da Medellín e negli anni cinquanta, quando aveva poco più di vent'anni e cercava di aprirsi una sua strada nella vita come artista, una borsa di studio italiana gli permise di vivere qualche anno a Firenze e Milano per studiare Giotto e il Mantegna. Per quell'opportunità avuta in dono allora, oggi che è molto anziano e molto ricco Botero continua ad avvertire un obbligo di gratitudine: ha deciso di tramandare in qualche modo ciò che ricevette offrendo una borsa di studio perché altri giovani colombiani potessero studiare in Italia.
Nove anni fa William Chiquito passò tutte le selezioni e vinse il finanziamento del pittore. Così una cellula di generosità e lungimiranza, depositata da qualcuno oltre mezzo secolo fa in un giovane sconosciuto, continua a moltiplicarsi.
(...)
Chiquito oggi è uno dei migliori violinisti dell'orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia a Roma, a meno di trent'anni si è già esibito in tutto il mondo ed è stato diretto da Riccardo Muti, Claudio Abbado e Antonio Pappano. Ha studiato alla scuola di musica di Fiesole - ora ci insegna - dormendo in ostello pur di risparmiare qualcosa e potersi comprare un violino adeguato. A quel tempo fu invitato per la prima volta a far parte dell'Orchestra giovanile italiana, e in uno dei primi incontri fra teenager di tutto il paese il direttore chiese, sorprendendoli: 《Chi vuole fare il primo violino?》. Nel gruppo si avvertì un attimo di esitazione. William Chiquito alzò la mano e la tenne bene in alto anche se avvertiva l'ironia dei compagni attorno a sé, un mormorio appena percettibile che intendeva dire 《ma cosa crede di fare questo colombiano》. Non si tirò indietro e fu immediatamente messo alla prova dal direttore. Ebbe il ruolo, e da allora avrebbe continuato a raggiungere i suoi obiettivi: il diploma di Fiesole, il posto a Santa Cecilia dopo uno spietato esame del maestro Pappano, la formazione di un suo quartetto personale di musica da camera.
(...)

LA MAESTRA E LA CAMORRISTA
Federico Fubini


venerdì 1 maggio 2020

La pretesa e la forza della vita che torna - fratello Mugo

Nell'Estremo Nord, là dove la taiga raggiunge la tundra, fra le betulle nane, i bassi cespugli di Sorbo selvatico coperti di bacche acquose di un giallo luminoso, straordinariamente grandi, tra i larici vecchi di seicento anni che raggiungono la maturità a trecento, vive un albero speciale: il mugo. È un lontano parente del cedro, è una conifera: un arbusto sempreverde con il tronco più grosso di un braccio umano e lungo due o tre metri. È di poche pretese e cresce abbarbicandosi con le radici nelle più piccole fessure del roccioso pendio montano. Come tutte le piante nordiche, è coraggioso e caparbio. Ha una sensibilità eccezionale.
L'autunno si attarda, dovrebbero già esserci la neve, l'inverno. Sulla bianca linea dell’orizzonte da molti giorni le nubi passano basse, bluastre, come coperte di ecchimosi. E da stamattina il vento tagliente dell'autunno si è fatto di una calma minacciosa. Presagio di neve? No. Non dedicherà. Il mugo non si è ancora coricato. E i giorni passano, non nevica, le nuvole vagano dietro le montagne, e nell'alto cielo è spuntato un piccolo sole pallido, ed è ancora autunno…
Ma il mugo si curva. Si curva sempre più basso, come sotto un peso infinito che aumenta in continuazione. Con un’estremità graffia una pietra e si comprime al suolo, stendendo le zampe di smeraldo. Si appiattisce. Somiglia a una piovra con delle piume verdi. Disteso, attende un giorno, poi un altro, ed ecco che dal cielo bianco si rovescia una neve polverosa, e il mugo  sprofonda nel letargo invernale come un orso. La montagna bianca si copre di grosse bolle di neve – sono gli arbusti di mugo  coricati per l'inverno.
E alla fine dell'inverno, quando la neve ricopre ancora la terra con uno strato di tre metri, e nelle gole montane le tormentate hanno ammassato una neve dura che cede solo al ferro, gli uomini attendono invano i segni della primavera, che secondo il calendario dovrebbe essere giunta da un pezzo. Ma la giornata non è diversa da una giornata d'inverno: l'aria è  rarefatta e secca e non si distingue in nulla dall'aria di gennaio. Per fortuna le sensazioni dell'uomo sono troppo deboli, le sue percezioni troppo elementari; d'altra parte di senso ne ha pochi, cinque in tutto – insufficienti  per predizioni e profezie.
La natura è più acuta dell’uomo  nelle sue sensazioni. Ne sappiamo qualche cosa. Pensate ai pesci della razza dei teleostei che vengono a deporre le uova solo nel fiume in cui loro stessi sono stati generati. Pensate ai misteriosi percorsi delle migrazioni degli uccelli. E non sono poche le piante e i fiori barometri noti all'uomo.
Ed ecco, in mezzo allo sconfinato biancore della neve, in mezzo alla totale devastazione, d'improvviso si alza un mugo.  Si scuote la neve di dosso, si raddrizza in tutta la sua altezza, leva i verdi aghi coperti di ghiaccio, appena rossicci, verso il cielo. Sente il richiamo della primavera che noi uomini non riusciamo a percepire e prestandosi fede, si sveglia prima di chiunque altro al Nord. L'inverno è finito.
Ma può essere anche qualcos’altro: un falò, per esempio. Il mugo è troppo credulone. Detesta talmente l'inverno che è pronto a credere al tepore di un falò. […]
No, non è solo il profeta del tempo. Il mugo è la pianta delle speranze, l'unico sempreverde dell'Estremo Nord. Nel bianco bagliore della neve le sue foglie aghiformi d'un verde opaco parlano del Sud, del calore  della vita. D'estate è  timido e passa inosservato: tutto  intorno a lui, fiorisce rapidamente, sforzandosi di raggiungere il pieno rigoglio nella breve estate nordica. I fiori primaverili, estivi, autunnali fanno a gara per superarsi nella loro impetuosa fioritura. Ma l’autunno è vicino, ed ecco che già cadono a terra i piccoli aghi gialli che lasciano nudi i larici, l'erba dei campi si accartoccia e diventa secca, il bosco si spoglia, e allora da lontano puoi vedere nel cuore della foresta, sull'erba di un pallido giallo, sul muschio grigio, le grandi fiaccole verdi del mugo che ardono.

I RACCONTI DELLA KOLYMA
Varlam Salamov



domenica 5 aprile 2020

Perché l'uomo è diventato uomo



Erano tre giorni che trivellavamo in un nuovo poligono. Ognuno aveva la sua fossa, e in tre giorni nessuno aveva superato il mezzo metro di profondità.  Nessuno aveva ancora raggiunto lo strato di ghiaccio perpetuo, benché i picconi venissero riparati senza alcun indugio - cosa strana, ma i fabbri non avevano scuse per tirarla per le lunghe giacché eravamo l'unica squadra di lavoro. Tutto stava nella pioggia. Diluviava da tre giorni e tre notti  senza interruzione. Su un terreno roccioso è impossibile rendersi conto se piove da un'ora o da un mese. Era una pioggia fredda e sottile. Le squadre vicine avevano già staccato da tempo ed erano state rispedite alle baracche: ma si trattava di squadre di malavitosi e noi non avevamo neanche la forza di provare invidia.
Avvolto nella sua enorme, fradicia incerta con il cappuccio a forma di piramide, il capogruppo si faceva vedere di rado. La direzione del campo riponeva grandi speranza nella pioggia, nell'acqua che ci sferzava la schiena. Eravamo ormai da un pezzo bagnati, non posso dire fino alla biancheria perché di biancheria non ne avevamo. Il segreto, primitivo calcolo dei capi era questo: pioggia e freddo ci avrebbero costretto a lavorare. Ma l'odio per il lavoro era ancora più forte e tutte le sere il capogruppo si metteva a bestemmiare quando calava il suo bastone con le tacche nelle nostre fosse. La scorta ci sorvegliava al riparo  di un 《fungo》, costruzione ben nota nei lager.
Non potevamo uscire dalle fosse, ci avrebbero subito sparato addosso. Solo il nostro caposquadra era autorizzato a camminare tra gli scavi. Non potevamo neanche gridarci l'un l'altro qualcosa - ci avrebbero sparato addosso. E ce ne stavamo in silenzio, sprofondati fino alla cintola nelle nostre fosse di pietra, una lunga fila di buche disseminate lungo la riva di un ruscello in secca.
Non facevamo in tempo ad asciugare i giacconi durante la notte, le magliette e i calzoni invece li lasciavamo asciugare con il calore  del corpo, e al mattino erano quasi asciutti.
Affamato e inferocito, sapevo che nulla al mondo mi avrebbe costretto al suicidio. Proprio in quel periodo avevo cominciato a capire l'essenza del grande istinto di conservazione, la qualità di cui l'uomo è in sommo grado dotato. Vedevo i nostri cavalli sfiancarsi e morire - non posso esprimermi in altro modo, utilizzare altre parole. I cavalli non si distinguevano in nulla dagli uomini. Morivano a causa del Nord, del lavoro troppo gravoso, del cibo cattivo, delle botte - e anche se subivano tutto ciò  in misura mille volte inferiore rispetto agli esseri umani, i cavalli morivano prima. E capii la cosa più importante:  che l'uomo è diventato uomo non perché è una creatura di Dio  né  perché nelle mani ha quella cosa straordinaria che è il pollice. Ma perché è FISICAMENTE più forte, più resistente di tutti gli altri animali, e poi perché in seguito ha saputo costringere il proprio spirito a servire con successo il corpo.
È a questo che ripensavo per la centesima volta nella mia fossa. Sapevo che non mi sarei suicidato perché  avevo toccato con mano quella mia forza vitale.



Varlam Salamov
I racconti della Kolyma




Tempo utile per.....


domenica 15 settembre 2019

Verso il mio primo giorno di scuola

Nell'inverno 1937-38, in seguito alla raccomandazione di una maestra, moglie di un vigile urbano, venni assunto per insegnare l'italiano ai bambini in casa di ebrei tedeschi che credevano - lo credettero per pochi mesi - di aver trovato in Italia un rifugio contro le persecuzioni razziali. Vivevo con loro, in una fattoria sulle colline presso il lago Maggiore. Con i bambini lavoravo dalle sette alle dieci del mattino. Il resto della giornata lo passavo nei boschi a camminare e a leggere Dostoevskij. Fu un bel periodo, finché durò. Imparai un po'  di tedesco e mi buttai sui libri di quella lingua con la passione, il disordine e la voluttà  che fruttano a chi studia cento volte più  che cento anni di scuola. 

Grammatica della fantasia
Gianni Rodari
Piccola Biblioteca Einaudi

giovedì 22 marzo 2018

IL RISVEGLIO


Il risveglio privilegiato non deve aver luogo necessariamente dal sonno. Posto che sonno e veglia non sono due parti della vita, che essa, la vita, non ha parti, bensì luoghi e volti. E così dal sonno e da certi stati di veglia ci si può risvegliare in questo modo privilegiato che è il risveglio senza immagini.
Risvegliarsi senza immagine anzitutto di se stesso, senza alcuna immagine della realtà, è il privilegio di quest’istante che può trascorrere inafferrabile ma lasciando, questo sì, la sua impronta; una impronta inestinguibile, ma che non si sa decifrare, perché non c’è stata conoscenza. E nemmeno una semplice registrazione di quell’esserci svegliati a questo nostro qui, a questo spazio-tempo in cui l’immagine ci assale. Dell’aver respirato soltanto in una solitudine privilegiata sulle sponde della fonte della vita. Un istante di esperienza preziosa della preesistenza dell’amore: dell’amore che ci concerne e che ci guarda, che guarda verso di noi.
Un risveglio senza immagine, così come dobbiamo stare quando ancora non abbiamo imparato il nostro nome, né nessun altro. Giacché il nome è legato alla normale condizione umana, all’immagine o al concetto o all’idea. E il nome senza nulla di ciò non si è mai dato. Quello di “Dio” sa di concetto, quello di Amore anche, fatalmente; e l’amore di cui si tratta non è un concetto bensì (dal momento che nominarlo senza dare un concetto è impossibile) una concezione.
Una concezione che si concerne e che ci protegge, che veglia su di noi e che ci assiste da prima, da un inizio. E questo non si vede bene, sfugge questo sentire senza giungere a elevarsi a sapere, a rimanere nel fondo, quasi sotterraneo, giungendo proprio dalla fonte; dalla fonte della vita che continua a irrigare segreta, nascosta, della quale non si vuole sapere “dove ha la sua dimora” benché in quest’istante del risveglio privilegiato la notte si sia ritirata.

Si nasce, ci si sveglia. Il risveglio è la ripetizione della nascita nell’amore preesistente, bagno di purificazione ogni risveglio e trasparenza della sostanza ricevuta che in tal modo si va facendo trascendente.


CHIARI DEL BOSCO
Maria Zambrano

Bruno Mondadori